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Da Kavafis a Seferis: Filippo Maria Pontani, artigiano della parola

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Kavafis A

Questo pezzo è uscito sul Venerdì di Repubblica. (Immagine: la poesia Quanto più puoi di Kavafis)

Ci sono storie che sembrano acquistare un senso in luoghi lontani da quelli in cui una semplice evocazione biografica li collocherebbe. La storia di Filippo Maria Pontani, filologo, traduttore, poeta, maestro tra i principali del nostro Novecento, sembra prendere luce in un triangolo umano che si sviluppa sulle rive meridionali del Mediterraneo, in una città oggi sepolta da colate di cemento e dimenticanza. È una storia alessandrina. Si snoda attraverso biblioteche, scuole, teatri, bar, numeri, poesia, amore e Grecia. Una Grecia eterna, metastorica, radicata nel mito e sparsa attraverso ogni angolo del mondo fino alla contemporaneità più lontana dalle origini e che pure ritrova unità ogni volta che una specie di destino finisce per mettere assieme uomini carichi di passato e di futuro.

Nella città di Alessandro Magno, nell’Egitto di un secolo fa, le linee che s’intrecciano sembrano uscire da una pagina del Quartetto di Alessandria di Lawrence Durrell. E infatti c’è il vecchio Poeta, innanzitutto. Il suo nome, ancora ignoto al mondo, è Costantinos Kavafis. E il suo posto, assai spesso, è una latteria su Boulevard di Ramleh, famosa per lo yogurt. I giovani intellettuali alessandrini lo guardano con ammirazione e uno in particolare lo osserva e lo ascolta. È un italiano di Alessandria, Giuseppe Ungaretti, che ascoltando Kavafis dice di sentire “la nostra Alessandria che in un lampo risplende lungo i suoi millenni come non vidi mai più nulla risplendere”. Devono passare anni perché fra questi due poeti s’inserisca il terzo uomo. Il numero che chiude il triangolo risuona nell’intreccio. Kavafis è appena morto. La sua scomparsa avviene esattamente a settant’anni dal 29 aprile 1863 in cui era nato. Il 29 aprile del 1933, Filippo Maria Pontani ha vent’anni e ignora che il destino segnerà anche per lui lo stesso limite: morirà settantenne, nel 1983. Nel frattempo, però, Ungaretti, la poesia e la Grecia hanno spinto Pontani verso Kavafis. Tanto che sarà proprio lui, quello che Ungaretti apostrofava “Pontanaccio mio”, a contribuire in maniera decisiva alla fortuna del grande poeta alessandrino, traducendolo, interpretandolo, scrivendo saggi, rendendolo noto in Italia mentre la Yourcenar faceva lo stesso in Francia e T.S. Eliot (via E.M. Forster) in Inghilterra, prima che l’America portasse alla consacrazione definitiva.

Spigoloso, ironico come il primo grande filosofo greco, molto lontano dalle liturgie accademiche (la cattedra arrivò relativamente tardi), Filippo Maria Pontani oggi è ricordato meno in Italia che all’estero. Le versioni greca e tedesca di wikipedia gli riservano spazi da noi inimmaginabili. Oggi, però, a cent’anni dalla sua nascita e a centocinquanta da quella di Kavafis, l’Università di Padova, ricorda la sua figura con “Due giornate di studio in memoria di Filippo Maria Pontani” all’Accademia Galileiana.

Era nato a Roma. Poesia e musica lo avevano formato fin da quando era in fasce. Suo padre, impiegato alle Poste, non aveva pensato a nient’altro e ci tenne a scriverlo anche margine del testamento: sono stato allievo di Carducci ho ascoltato Verdi e Wagner – cosa desiderare di più? Non disse che i viaggi aveva potuto soltanto sognarli, collezionando un’infinità di fotografie e resoconti da ogni angolo del globo. Ma fu il figlio a realizzare parte di quei sogni. Diplomato in violino a Santa Cecilia, laureato in filologia a Roma, partì subito, nel 1937, per insegnare al Liceo italiano di Rodi. Qui si aprirono le due grandi strade che lo avrebbero reso celebre. Negli studi iniziò a spaziare senza soluzione di continuità fra la Grecia arcaica e quella contemporanea. Quanto all’insegnamento, la consapevolezza di un continuum fra antichità e modernità e di un’estensione totalizzante della cultura segnò in maniera indelebile generazioni di liceali.

L’aneddotica sul Pontani insegnante meriterebbe sicuramente un lavoro a sé stante. Amante dello spirito critico e della capacità di dar vita a qualsiasi tipo di conoscenza, vagava attraverso i tempi, i luoghi, gli argomenti. Memorabile la sua prima lezione in una classe femminile subito dopo la tragedia di Superga, con un’ora intera dedicata a celebrare il grande Torino. Innumerevoli le rasoiate su musica e teatro. “Non hai capito bene Aristofane? Per caso hai assistito alle Rane in scena a Ostia antica? Ma non sei mai stato a Ostia antica? E Roma? Ci vivi qui. Quali teatri di Roma conosci? Mi spiace, non posso interrogare su Aristofane una persona che non è mai andata a teatro”. La voce profonda, i riferimenti inesauribili a qualsiasi genere di sapere, i paragoni sorprendenti, Pontani fu amato (e odiato), le studentesse lo idolatrarono, mentre i colleghi lo studiavano. Intanto cresceva il contributo agli studi specialistici. La tragedia greca, i lirici, i 23.000 versi dell’Antologia Palatina (impresa titanica), si alternavano alla letteratura neogreca.

Dopo Kavafis, fu la volta di un altro colosso: Giorgos Seferis. Pontani lo studiò e tradusse, divenendone intimo amico e contribuendo alla sua fama ben prima che, nel 1963, conquistasse il Nobel. “Pontani è un prestigiatore” disse Seferis ringraziando chi meglio lo aveva tradotto. “Artigiano della parola” si definiva lui. Rincorreva l’ideale crociano della traduzione riuscita, quella che supera “la brutta fedele” (il lavoro scolastico) la “bella infedele” (la versione artistica) e la “brutta infedele” (l’insopportabile versione del traduttore mediocre) aspirando all’irraggiungibile “bella fedele”. Spiegò accuratamente che se la conoscenza perfetta della lingua è necessaria (ecco perché il lavoro di Quasimodo sui poeti greci antichi e di Pasolini sull’Orestea andavano rifiutati), altrettanto necessaria è una conoscenza della poesia espressa dalla lingua in cui si traduce. E così vennero fuori i suoi modelli: da Dante a D’Annunzio, da Montale a Zanzotto.

Se oggi alcune sue traduzioni appaiono forse superate dai tempi, il motivo va cercato, secondo gli esperti, soprattutto negli echi d’annunziani. Eppure è proprio in D’Annunzio che noi troviamo la chiave per percepire tutta insieme la grandezza di Pontani. Perché il poeta che si fa carico del passato, che cerca di essere la voce della propria storia, anche soffrendo il suo ruolo di epigono, quello è il grande poeta, nel senso più pieno della parola. Il creatore (perché questo significa poietes in greco antico) che, come D’Annunzio da noi e come Seferis in Grecia, cerca di farsi coscienza della propria eredità classica. Quel che riuscì, in una specie di magia al poeta greco di Alessandria, Kavafis. A lui, allora, nella traduzione di Pontani, l’eredità di tutte le voci perdute che il sogno e la poesia fanno rivivere: “Voci ideali e care / di quelli che morirono, di quelli / che per noi sono persi, come morti. // Talora esse ci parlano nei sogni / e le sente talora tra i pensieri la mente. // Col loro suono, un attimo ritornano / suoni su dalla prima poesia della vita, / come musica, a notte, che lontanando muore”.


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